Cadono le arance di fronte a casa, ieri le abbiamo raccolte, poi stanotte è venuto giù il finimondo e stamattina da capo, queste ormai se ne staranno lì come monito per le altre, e ciao. Le vai per spiccare e sembrano aggrappate all'albero come naufraghe all'ultima scialuppa, non c'è torsione che tenga, arriva una botta di vento e plop, cadono a terra come pere (cioè come arance). Io poi non le posso mangiare, mi viene un'acidità che mi si propaga per tutto lo sterno come un'angina. Fosse per me le lascerei lì come nature morte finché muoiono per conto loro, finché ritornano alla terra, polvere sei e polvere ritornerai, memento mori. A me piace il colore, globi di sole in mezzo alle foglie verdi, qualcosa di antico, di omerico, le vacche del sole, mi è sempre piaciuto l'arancione, me lo dicevano sempre i miei capi, che facevo tutte le cravatte gialle, tutti i vestiti gialli, tutte le sfumature di arancio. Qui, nel nostro ideale giardino epicureo, le arance rappresentano la vita, e anche la gastrite.
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