martedì 29 aprile 2014

Mēdèn ágān (niente di troppo)

Quello che sfugge o almeno sembra sfuggire agli antagonisti del capitale (eppure lo dovrebbero sapere) è che ogni sistema economico storico è semplicemente il frutto di un adattamento alla capacità produttiva del tempo, o meglio, che un sistema economico emerge dalla capacità o meno di produrre i beni necessari a coprire sempre più degnamente i bisogni. Io in questo ci vedrei un prevalere della tecnologia rispetto all'economia, voglio dire, la macchina a vapore è cagione della rivoluzione industriale e non conseguenza. Così quando si dice degli antichi greci: "loro si che predicavano la moderazione, il giusto equilibrio, il giusto metro!" si tralascia il fatto che gli antichi non avevano nemmeno intravisto la possibilità di aumentare all'infinito la capacità produttiva, non a caso si discute sui motivi del "fallimento tecnologico" delle civiltà classiche. Così appare pura utopia cercare di domare la bestia capitalista facendone una questione morale, ogni società produce nei modi e nei termini consentiti dalla tecnologia a disposizione, la quale non può certo arrestarsi o rinunciare al suo compito, o, cosa ancora più impensabile, avanzare ma con moderazione. E non è solo più questione di una giusta redistribuzione della ricchezza perché è oramai chiaro l'intento di depotenziare il capitalismo, di decrescere felicemente, di abbassarne l'intensità: produrre meno per guarire dall'ansia del profitto. Ma così come è vano e impensabile pretendere di arrestare moralisticamente il progresso delle biotecnologie lanciando anatemi contro l'eterologa, così è vano protestare contro l'aumento esponenziale della capacità produttiva quando se ne ha la facoltà e soprattutto la disponibilità di risorse e di materie prime. Spegnere la macchina significa in sostanza rinunciare alla tecnica, pretendere di depotenziarla, sarà mai possibile? Più probabile che la tecnica porrà eventualmente i suoi limiti in se stessa più che negli uomini, perché voler limitare la tecnica significa in sostanza voler limitare la stessa libertà d'azione dell'uomo, un suicidio della volontà più che mai impensabile, il suicidio del rimedio. Per cui si può anche dire: si predica la moderazione quando non si è in grado di garantire l'abbondanza, l'origine materialistica della virtù.

Se ho preso a parlare di certe questioni non è per caso, se lo faccio è perché temo che a breve dovremo misurarci con certi movimenti politici anche sul piano filosofico, tanto è crudele la realtà.

domenica 27 aprile 2014

Può essere riduttivo intendere Dio come una semplice proiezione di desideri inconsci e frustrazioni originarie dei mortali che proiettano l'impossibile fuori da sé (desiderio di immortalità, di onnipotenza, di giustizia, ecc.), però funziona e funziona soprattutto se si vuole contestualizzare storicamente l'idea che ci siamo fatti e ce ne facciamo tutt'ora. Ad esempio, calati nel contesto prestigioso della canonizzazione di Roncalli e Wojtyla fra re e regine, principi e velette di un'epoca che fu, nell'incanto del momento, ad alcuni - tra cui anche al Renzi che è facilmente impressionabile - potrebbe venire il dubbio che esista veramente il Dio della tradizione, quel Dio che infondeva un poco del suo potere nelle monarchie ereditarie e si incarnava nell'ordine stesso del mondo. Metti poi che una folata di vento sollevi qualche pagina significativa di un passo del Nuovo Testamento e che la richiuda a comando nei tempi e nei modi di una coreografia ben studiata... be', il gioco è fatto. Non torneranno i bei vecchi tempi ma almeno se n'è fatta una bella rievocazione, come per Austerlitz o la battaglia di Gettysburg, della quale anche quest'anno ricorre l'anniversario.

prestigióso agg. Farsi prendere dall'incanto, dal gioco di prestigio, cedere alla fascinazione, con riferimento al viluppo dei sensi e al loro insieme intricato.

sabato 26 aprile 2014

C'è troppa acredine nei confronti di Renzi così come ce n'era nei confronti di Berlusconi, acredine rivolta verso l'habitus mentale e anche verso la persona, intesa come legittima proprietaria del suo habitus. Dalla mia privata prospettiva hegeliana inviterei a considerare queste figure come eroi comici e cioè Renzi come Resultat o ultima incarnazione in ordine di tempo di un certo movimento globale della politica e cioè l'approdo verso una sempre più puntuale adesione alla tarda post-modernità, ora intesa come “ammodernamento” ora come “svecchiamento”, adeguamento a istanze che si vorrebbero dire concrete più che ideologiche. Comici in quanto il “concreto” di cui si vorrebbe essere paladini si riduce di fatto ad una serie di pose da innovatori che non vanno quasi mai aldilà della forma, essendo che nessuno pare abbia la benché minima idea di cosa sia necessario fare per raggiungere un qualsivoglia risultato “concreto”, le grandi riforme economiche si risolvono puntualmente in grandi partite di giro che non danno il la ad alcun meccanismo virtuoso. Vittime dei tempi più che precursori, prodotti più che produttori, istrioni e interpreti della comédie intenti a reggerne il senso cercando di alimentare quanto più possibile l'illusione di un sempre più nuovissimo rinnovamento. Grillo attende sornione all'incasso, nuovo tassello del movimento dialettico fino alla fase successiva e così via (in questo senso le vicende politiche di un paese intese come pencolamento infinito fra incanto e disincanto).

mercoledì 23 aprile 2014

Mi sfugge sempre una cosa nelle visioni che si vogliono dire post-capitaliste e cioè: che cosa dovrebbero perseguire le imprese se non il profitto? Certo, superata l'economia di mercato, superata anche l'idea di impresa. Così come Tommaso d'Aquino mai si sarebbe potuto immaginare un mondo industrializzato, così noi difficilmente ci potremmo fare un'idea di un mondo completamente liberato dal paradigma capitalista, ma nulla vieta che un giorno lo sia. Un panettiere produce il pane per farci dei soldi, la passione che ci mette è secondaria, tanto più che se lo fai per una vita prima o poi ti verrà a noia. Fare il pane per il solo altruismo sarebbe qualcosa di bellissimo ma non so se funzionerebbe, il diavolo si nasconde nella filiera, per non dire del fatto che senza una vera necessità alle spalle anche le più buoni abitudini tendono a scemare. A volte mi viene da pensare, ma giusto così, una pazzia, che per superare davvero la logica del profitto servirebbe una diavoleria moderna, di quelle che spuntano ogni tanto dal cappello degli scienziati, un materializzatore automatico di beni di consumo. Utile, universale, semplice da usare, alla portata di tutti, nemmeno sugli Urania si è mai visto qualcosa di simile. In pratica qualcosa che renda obsoleta la stessa struttura produttiva, un materializzatore universale di ricchezza, cosicché nel momento stesso in cui lo si è generato nemmeno l'inventore saprebbe trarne profitto, poiché ad ogni consumatore sarebbe possibile trarne uno equivalente. Pura fantascienza.

E questa sarebbe la via "crescente", ma ce ne sarebbe anche una decrescente: il giusto metro, il moderato consumo dei beni, così da spegnere sul nascere l'ansia di profitto. Invece di comperare due panini se ne compri solo uno e i panettieri adeguino la produzione di conseguenza. Mezza farina, mezzo sale, mezzo olio, mezzi campi coltivati e una doppia superficie riconvertita a parchi naturali. Pensate sia possibile? Io penso di no, in questa logica vi è un surplus di intento morale che mai potrà sovrastare il desiderio di carattere materiale. La macchina non si ferma, lanciata in picchiata a tutta velocità nessuno si illuda di rallentarne la corsa, si tratterà casomai di raccoglierne i cocci (se mai ne resteranno).

Questa è una tazzina di caffé, presa in un bar. Tu sai quanta ingiustizia, quanta disuguaglianza e sperequazione ti stai trangugiando con il semplice atto di portartela alle labbra? Verrà un giorno che l'allegro samambaiano attraverserà i vasti oceani con il sorriso sulle labbra e il vecchio benzinaio caricherà 800 tonnellate di HSFO nei serbatoi della nave fischiettando una milonga, la ricerca del profitto sarà un lontano ricordo e il pulitore di stive ricambierà con un saluto di cortesia al nostro preferigli un crodino.

martedì 22 aprile 2014

Mutter

A chi si lamenta che non c'è più verità, che tutto frana, che la realtà non tiene, occorrerebbe ricordare che di verità ce n'è fin troppa, il guaio è che non piace abbastanza. La verità, insomma, pare che debba prima piacere per essere ritenuta tale, che debba cioè incontrare il gusto del pubblico. Come direbbe un tale: è il senso della verità in quanto rimedio che viene a tramontare, allora sì, di quel tipo di verità ce n'è sempre meno, è merce sempre più rara. Per cui suggerire che la verità è ciò in cui da sempre siamo parrebbe quantomeno irrilevante. Perché la verità non la si vorrebbe semplicemente descrittiva, la si vorrebbe rincuorante, amorevole, nutritiva, come un seno caldo che allatta, come la mamma. In alternativa, si può sempre abbracciare un cavallo.

lunedì 21 aprile 2014


In questo clima di generale liberazione dal giogo di tutti i vincoli necessario ad affermare con forza la propria volontà e l'intenzione di possedere il proprio destino, chi può impedirci infine di pensare che anche questa pulsione alla libertà non sia che il fantasma di un'impossibile fuga da se stessi? Ci si aggrappa alla libertà come all'albero spezzato che galleggia dopo un naufragio. Ci si abbandona alla deriva con le spalle al muro, obbligati a liberarci secondo quel rimedio che sembra possedere la forza concettuale di respingere tutti gli altri. Fosse ancora vivo, Nietzsche probabilmente sarebbe preda dello stesso disincanto, fustigatore di questa libertà di qualità assai mediocre, vittima dei sistemi liberali e democratici, al giogo di un'economia di mercato che organizza per noi le modalità della nostra libertà e più che superuomini ci vuole superconsumatori. Avrebbe fatto faville, e giù di maglio e di martello a frantumare la falsa libertà in nome di quella vera! (Toni Negri e Nietzsche la stessa cosa).

Farebbe dunque scandalo dubitare che la libertà esista? Intendo in quanto completa capacità di determinarsi indipendentemente da agenti esterni, i quali notoriamente mai possono essere completamente isolati. La dialettica storica viaggia per conto proprio, dalle connessioni fra i viventi emergono sentimenti comuni, Stimmung und Zeitgeist, Samt und Stein. L'aspirazione alla libertà procede per vampate di calore, non già per il prigioniero o per l'ostaggio, la qual cosa sarebbe comprensibile, ma in generale per tutti: chi può dire quanto sia indotta da fattori esterni oppure prodotta indipendentemente dal soggetto? Troppo giovane per capirlo, per timore di passare per reazionario o peggio per rinunciatario, indifferente, fatalista, connivente di fatto con il nemico (per molto meno un tempo privavano della libertà). Per non parlare dei sistemi giuridici fondati sul concetto di piena capacità di intendere e di volere, già la neuroscienza si scervella sulle implicazioni della predisposizione genetica e dell'esperimento di Libet.

Quello che intendo è che bisognerebbe fare attenzione a non caricare la libertà di troppe aspettative e risvolti escatologici, che a una idea di libertà occorrerà sempre adeguarsi e ogni senso ci determina, impensabile quindi porre una libertà che sia assolutamente libera, isolata da ogni contesto, ogni libertà è intessuta in una trama: chi dice che la libertà è in Cristo, chi in Darwin, Nietzsche, Lenin o Mussolini, quando se ne fa una merce della libertà rimane solo l'etichetta.
 
"Quindi non sono io il padrone della mia vita:
io sono un filo che dev’essere intessuto nella trama della vita!" 
Søren Kierkegaard
La ragione entro i limiti della semplice opinione. Si sa che il problema della morale in Kant è tutto racchiuso nel nobile tentativo di riedificare l'edificio morale privandosi dell'ingrediente principale e cioè di quella solida malta fornitagli per secoli dalla metafisica cristiana. Sembrerebbe impresa titanica, come impastare una torta senza fecola o farina. In sostanza, tolta la pretesa di ancorare le leggi morali all'arbitraria volontà di un dio e di una religione che intende farsene interprete, tolto il vecchio fondamento, per cui Kant, che era uomo di abitudini regolari persino nell'accingersi a fare una rivoluzione, si dedicò all'impresa di rifondare la morale pretendendo questa volta di ancorarla al criterio più oggettivo della ragione naturale.

«La religione in cui io devo, prima, sapere che qualche cosa è un comando divino, per riconoscerla poi come mio dovere, è la religione rivelata (o che esige una rivelazione): quella, invece, in cui io devo sapere che qualche cosa è un dovere prima che la possa riconoscere come un comando divino, è la religione naturale»

(La religione entro i limiti della semplice ragione)

Qui è chiaro l'intento, per cui risulta chiarissimo anche il celebre motto «il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me», reso col tempo obsoleto dall'altrettanto celebre «non esistono fatti, solo interpretazioni». Dice Kant: se non possiamo più accettare l'idea di una morale rivelata, cioè che comporta un'assunzione di fede, dobbiamo allora adeguarci più ragionevolmente a una morale «naturale», che è poi la morale della «semplice ragione». La ragione parla all'uomo con il suo imperativo, il quale risulta più naturale della stessa volontà rivelata, cosicché il cristianesimo finisce per divenire in prospettiva la vera religione naturale, i cui dogmi sono lo specchio delle verità morali secondo ragione.

Perché non possiamo più adeguarci a una tal soluzione? Perché in qualità di contemporanei abbiamo scoperto che il concetto di “naturale” può nascondere le stesse insidie insite nel concetto di “divino”, e cioè la possibilità che dietro ad esso si nasconda in realtà un fantasma, il fantasma del bisogno di stabilità, una pulsione fisiologica ancor prima che psichica (Nietzsche docet). Ecco per cui si diffonde quell'atteggiamento morale tipico della modernità in cui gli atti si giustificano in sé in ragione di un criterio positivo e non secondo un criterio naturale. La categoria del naturale si estingue quasi fosse l'eco di un vecchio trombone inservibile, l'ultimo dei giapponesi che combatte una guerra che non sa ancora di avere perso. Nemmeno più si è portati a pensare che la ragione abbia una qualche connessione con l'empireo o con Dio, il segno di una sua elezione nei nostri confronti, il segno della Sua intima presenza o della nostra sostanziale differenza rispetto al genere animale (l'uomo animale razionale, ecc.), ma che sia invece una funzione da tenere ben allenata se si vuole praticarla per il meglio, come la memoria o come il muscolo del centometrista o del maratoneta, modellato sulle necessità contingenti della disciplina che si vuole praticare. Senonché, liberata dal peso del vincolo naturale, la ragione ritorna ad essere "circostanziale", cioè vera solo date certe premesse o comunque strumento di questo o quell'argomento contingente, riviviamo in un'epoca di scetticismo, in una riedizione del sofismo come pratica utilitaristica della ragione, niente di nuovo o che non sia già stato precorso dagli antichi, ed è bene tenerlo a mente se si crede di avere raggiunto il culmine di un certo percorso di civiltà.

domenica 20 aprile 2014

Se penso alla condizione animale in natura, cioè quella di rappresentare un anello della catena alimentare, in cui la propria vita non ha senso se non quello di essere cibo per altri animali (e qui la cosa si fa più evidente alla base), mi viene da pensare come sia presuntuoso che il genere umano abbia creduto, giunto a un certo punto del suo sviluppo, di essere il favorito degli dei, il genere eletto, il dominatore del creato (salvo intervento dei piani alti). Altro che tacchino induttivista, l'intero sviluppo del genere umano si potrebbe leggere come la vicenda del dominatore sazio che si interroga sul senso di questa sua sopraggiunta sazietà. Diméntichi delle nostre origini, ci crediamo ora favoriti dagli dei ora dalla ragione, destinati al sacrosanto dominio e alla superiorità della specie. Finché la grande livellatrice riconduce i termini della questione alle sue origini, si vive da uomini e si crepa ancora da animali.

mercoledì 16 aprile 2014

Un amico filosofo neo-hegeliano, Diego Fusaro, si è fissato come obiettivo quello di trasformare il mondo, renderlo disponibile al mutamento, per questo ha sviluppato una filosofia dai forti connotati salvifici, una sorta di soteriologia. Possiamo e dobbiamo cambiare il mondo, il capitalismo vuole invece la vicenda storica dell'uomo come intrasformabile e giunta al suo termine ultimo, in quanto dominio pienamente asservito ai suoi scopi e cioè la riproduzione infinita delle merci. Il capitalismo è dunque «meccanismo di riproduzione illimitata del valore», crematistica fine a se stessa. Io con il tempo ho maturato invece una visione più neutrale, in quanto penso che il mondo sia già trasformabile di per sé, che ogni re verrà deposto, per cui non dobbiamo nemmeno fare la fatica di volere che cambi, che il capitalismo, eventualmente, verrà hegelianamente superato da qualche altra diavoleria moderna quando le mutate condizioni lo riterranno opportuno. Temo che questo farebbe di me un collaborazionista, un rinunciatario, un pericoloso fatalista che si astiene da ogni giudizio di merito civile e morale, ma non è così che la vedo. Intendo che la volontà di potenza, che sia la volontà del filosofo oppure del liberista, è il residuo di ciò che viene depositato a riva dalla marea, il particolato della storia, che tanto più ci condiziona quanto più crediamo di cavalcarla. Siamo vittima del nostro carattere e delle nostre passioni, le quali si incarnano per ciascuno di noi in una vena diversa, in un diverso filone di pensiero. Questo non vuol dire che voglio stoicamente rinnegare le passioni, questo no, casomai metteremo in discussione le correnti in cui abbiamo di volta in volta deciso di incanalarle. Personalmente io mi acquieto più nella noluntas, ma è questione di gusti se non addirittura di naturale decorso fisiologico. Forse è perché non capisco cosa ci può attendere dopo il capitalismo, la mia prudenza mi rende sospetto il semplice trasformare per il trasformare, l'agitare l'albero senza sapere cosa potrà cadere, se una mela o una colonia di vespe, lascio fare alla natura o almeno finché non sarò in grado di intravederne bene il frutto.
Divagazioni strutturaliste. Spesso mi dico: "fossi nato in un'altra epoca, in un altro passato, in un altro futuro!", come se nascere fosse una lotteria e noi i bussolotti estratti da una mano invisibile che arbitrariamente ci consegna alla vita... ma subito dopo mi accorgo che non è possibile, che non sarei io, perché è il nostro essere situati, incastonati in un destino, intessuti in una tela, che fa di noi quello che siamo. L'haecceitas emergerebbe come una proprietà dalle relazioni, come lo spazio e il tempo dalla rete di spin. Non un sasso caduto dal cielo, non un fulmin scagliato da Dio, ma l'effetto dello gnommero in cui fatalmente siamo avviluppati (eureka!).

martedì 15 aprile 2014

Al punto II Malvino si chiede, per interposta persona, perché gli intellettuali non amano il liberalismo, o meglio, perché gli intellettuali in genere avversano il capitalismo, finendo per abbracciare l'ipotesi «rozza ma assai più appagante» di Robert Nozick per cui «gli intellettuali sono ostili al liberalismo perché le società che lo adottano non remunerano adeguatamente gli anni che essi hanno sacrificato allo studio». Può anche essere, ma non necessariamente. Vale per molti intellettuali quel concetto della filosofia hegeliana che si indica con il termine di “coscienza infelice”, per cui spesso il buon borghese o comunque l'uomo danaroso, lo scrittore e il filosofo di grido eventualmente ben retribuito da università americane, quasi sentendosi in colpa o per un puro slancio dell'animo o forse grazie alle sue spiccate doti intellettuali, si dica in grado di avvertire le insidie del capitalismo pur traendovi vantaggio. Adeguatamente pagati o meno, non sembra essere questione di riconoscenza, non sembra bastare l'esempio edificante ma soprattutto remunerativo dell'economia di mercato ben applicata al proprio caso personale a consolare l'irrequieto. Sono dunque portato a pensare che l'intellettuale generalmente avversi il capitalismo in quanto restio a farsi giudicare secondo il principio dell'efficienza e dell'utilità pratica (ma per dire questo basta un professor Bellavista o eventualmente anche un Galimberti). Per giunta se bastasse all'intellettuale farsi ben remunerare dalla società capitalista per convincersi incontrovertibilmente della sua validità, saremmo paradossalmente costretti ad ammettere come vero il principio marxiano per eccellenza secondo cui sono le forme della sussistenza che determinano le forme della coscienza, il che non è proibito ma sarebbe assai divertente.

domenica 13 aprile 2014




La mia grande onestà intellettuale, voi lo sapete, mi imporrebbe di stare dalla parte di chi vuole una Chiesa più tradizionalista, ritenendo questa la posizione più coerente. Fossi stato credente mi sarei speso in panegirici aristotelici e tomisti, mi sarei appellato alla figura del Cristo redentore e avrei cercato di mostrare come questa si fosse già affacciata nei tratti del platonismo e in certi vezzi dell'epicureismo, sì, l'Epicuro cristiano*, tanto per epater le bourgeois. Proprio non sta bene che la Chiesa da un lato si metta a frignare sulla dittatura del pensiero unico e dall'altra si cali le brache e si metta ad inseguire la modernità per puro calcolo di marketing. E' da secoli ormai che la Chiesa si adatta al gusto della clientela più che imporne uno suo proprio e anzi sorge il dubbio più che fondato che la Chiesa sia da sempre e necessariamente un'entità storicamente situata. Lo avrete notato, per venire incontro al gusto della clientela non si parla quasi più del Demonio e il male del mondo viene generalmente attribuito alla cattiva volontà degli uomini. Non si fanno più reliquie dei santi, non si smembrano più cadaveri, mai vedremo esposte le teste imbalsamate dei santi di fresca nomina. Il cadavere di Santa Caterina da Siena, patrona d'Europa e d'Italia, è sparso per mezzo continente, un piede qui, una tibia là, un tempo usava così. Oggi farebbe orrore donare al monastero di Wadowice anche solo un orecchio di Wojtyla. E' un bel paradosso che oggi debbano essere gli atei ad insegnare alla Chiesa come si fa o come si dovrebbe fare, Ferrara ne è l'esempio, come un prete che ai corsi prematrimoniali fosse costretto ad insegnare agli sposini pigri le posizioni del Kāma Sūtra. Questi sono i tempi.

«Se voi cristiani vi preoccupaste di Dio tanto quanto 
me ne preoccupo io che sono ateo, sareste tutti santi».

 (Michelangelo Antonioni)

Ma si può arrestare impunemente Dell'Ultri così, come fosse un criminale internazionale, Goldfinger, approfittando della debolezza politica del suo grande elettore? E' legale? Calcare la mano sul particolare dell'hotel di lusso e la cospicua somma di denaro, come se non fossero denari suoi, denari guadagnati onestamente nel corso di tre legislature o vogliamo cedere alle suggestioni grilline del "tutti ladri, tutti mafiosi"? Anche il paese non ci fa una gran bella figura, si dà l'idea che siamo tutti dei Sopranos, delle simpatiche canaglie a metà fra Jep Gambardella ed Al Capone, gente che intrallazza fra una pasta di mandorle e l'altra. Io sto con Dell'Ultri. Mi permetterei solo di dissentire sulla scelta del luogo di villeggiatura, Beirut fa troppo pizza-connection, fa troppo anni ottanta, in questo senso è un po' come andarsela a cercare, personalmente avrei preferito Cipro o il principato di Sealand, questo è tutto.

sabato 12 aprile 2014

Non c’è possibilità di dialogo, non c’è possibilità di aprirsi alle novità che Dio porta con i profeti. Hanno ucciso i profeti, questa gente; chiudono la porta alla promessa di Dio. E quando nella storia dell’umanità viene questo fenomeno del pensiero unico, quante disgrazie. Il secolo scorso abbiamo visto tutti noi le dittature del pensiero unico, che hanno finito per uccidere tanta gente, ma nel momento in cui loro si sentivano padroni non si poteva pensare altrimenti. Si pensa così”. […] "Oggi si deve pensare così e se tu non pensi così, non sei moderno, non sei aperto o peggio".

Si parlava della crisi dell'autorità della Chiesa, ecco Papa Francesco che reclama il maltolto. Niente di nuovo, a Papa Francesco bisognerebbe solo ricordare di non indugiare troppo sull'argomento del pensiero unico che ha generato disgrazie, dati alla mano, un semplice Giorello basterebbe a zittirlo. Però è sintomatico di questa Chiesa ferita dalla modernità cercare di dipingerla come persecutrice, fatto salvo che la modernità (intesa come luogo del diffuso atteggiamento scientifico e culla delle libertà individuali) è davvero la forma prevalente di pensiero, se non unico, poco ci manca. Davvero un tempo si pregava per guarire dalla malaria, oggi scientemente la si cura, e il dominio della preghiera è relegato in quel margine statistico di probabilità che riguarda l'imponderabile, la possibilità di esito negativo scientificamente determinata. La scienza è così potente da ricacciare la fede in un recinto, tant'é che oggi non si vedono papi curati alla maniera di Galeno, all'occorrenza ci si fa operare anche dagli atei o alla meno peggio dagli agnostici e dai teisti. Per cui risulta patetico il piagnisteo della Chiesa che si fa vittima della storia, se non addirittura controproducente, alla lunga può passare l'idea che la Chiesa sia stata abbandonata dal favore degli dei, che per una religione è un po' la fine. In conclusione, la Chiesa pare destinata a suscitare tutt'al più simpatia, a rappresentare una guida solo in relazione a quella porzione di imponderabile concessagli ancora dalla scienza e comunque non contravventente alla libertà individuale, per non dire che se la Chiesa cede alla modernità sarà volontà di Dio e se non è Sua sarà volontà del Demonio, che Papa Francesco ce ne parli o taccia per sempre, non sollevare la questione della natura demoniaca della modernità è un cedimento bello e buono al pensiero unico.

venerdì 11 aprile 2014

Ci sarebbe anche da notare come la crisi di autorità che da anni investe le strutture sociali e politiche del mondo occidentale costringa appunto il politico che voglia costruire attorno a sé un certo consenso ad affidarsi alla mozione degli affetti più che all'argomento razionale. Per cui è tutto un rifiorire di uomini dal carisma confidenziale e rassicurante, "uno di noi": il piazzista che racconta battute sporche, Obama che mangia il gelato con le figlie, Renzi che si aggira in pigiamone a Palazzo Chigi, per non parlare di Papa Francesco, punta avanzata di questa dilagante strategia di marketing e del buon vecchio Karol (Ratzinger, in questo senso, una vecchia ciabatta, completamente fuori dalla storia, tanto da autoescludersi clamorosamente per manifesto sentimento di inadeguatezza). In poche parole, quello che si è perso in autorità va riguadagnato in simpatia, alla quale la cosiddetta "gente" attribuisce sempre più credito a discapito di una competenza che appare sempre più difficile da valutare per la scarsa specializzazione del senso comune, questo è il punto (se poi si vogliono comprendere le ragioni profonde di questa crisi generale dell'autorità ci sarebbe tutto un altro discorso da fare).

mercoledì 9 aprile 2014

21st century schizoid man

Sono contrario all'eterologa, come del resto sono contrario alle nascite in generale, mettere al mondo qualcuno è in pratica condannarlo a morte raccontandogli la favola che l'hanno fatto per il suo bene. Da libro Cuore le palle che ti raccontano: il dono della vita, l'amore di mamma, la ricerca della felicità, soluzioni velatamente teologiche o al minimo teleologiche. La mia anafettività mi porta ad escludere la dimensione delle relazioni umane dal computo delle cose da salvare, per cui in genere non mi viene in soccorso l'incanto degli affetti o delle amicizie o la conformità ai modelli sociali, in genere vedo le ossa laddove gli altri vedono la carne, la vita mi appare nuda e cruda nella sua più muta mancanza di senso, the 21st century schizoid man. Ma anche ammesso che la mia malattia sia curabile o che la personalità schizoide sia quell'occhiale kantiano attraverso il quale la vita appare più vuota e tetra rispetto all'adulto di sana e robusta costituzione psichica e morale, mi domando: all'uomo sano sta bene così, l'uomo sano sarebbe quello che al senso non ci pensa e casomai, o al limite, spera che ci metta una pezza il buon Dio in zona Cesarini? O quello che popola il mondo di figli suoi perché così fan tutti o in conformità a una legge di natura? Lo schizoide non capisce ma è in buona compagnia.

martedì 8 aprile 2014

Una nota di costume. Sollecitato a fare il nome della mia attrice preferita o di questa o quella soubrettina per cui perderei volentieri la testa mi ritrovavo a fare scena muta, non già per snobismo, ma in quanto mi rendevo conto che il mondo dello showbiz, popolato da donne altissime e irrangiungibili e da uomini incomprensibilmente belli secondo i parametri della mia sensibilità maschile, mi appariva come una grande gipsoteca di statuine che si muovono su uno sfondo tanto irreale quanto fantasmagorico. Esistono davvero? Ricordo che vent'anni fa Fabio Fazio mi si consustanziò dinnanzi all'uscita della Rinascente di piazza Duomo a Milano, ancora troppo poco per credere nella loro esistenza.

lunedì 7 aprile 2014

L'entelechia disvelata


Qual è la visione del mondo dello schieramento “progressista”? 

Guardi: l’onorevole Gianni Cuperlo mi ha mandato un’email con il suo programma, chiedendomi cosa ne pensassi. Gli ho risposto che era un programma interessante, anche per il suo intento di collegarsi alla sinistra europea. Poi ho aggiunto che il suo progetto era il modo migliore per salvaguardare il capitalismo. Non mi ha più risposto. Ma vorrei dirgli che in quella mia aggiunta non c’era ombra di ironia.

(Emanuele Severino intervistato da Il Fatto Quotidiano, 15 Dicembre 2013 *)

Perché lo schiaramento progressista, cioè quello "di sinistra", è uno schieramento bicefalo, da un lato vorrebbe agganciarsi al progresso, inseguendo quell'idea di benessere che oggi si declina principalmente in senso economico, dall'altro si sente in colpa per questo inseguimento e vorrebbe frenarlo, cercando di evitarne gli eccessi. Così questo doppio movimento finisce per immobilizzare lo slancio, con grave danno per l'entusiasmo e per la capacità di penetrazione del messaggio. Non è dunque questo liberatorio affrancamento dal senso di colpa la cifra più evidente del renzismo? Matteo Renzi dice al progressista: vai, sei finalmente libero dal giogo, sei un membro legittimo della società capitalista, ma affrettati che è tardi! Trovo salutare questa liberazione, perché è bene che i processi giungano a compimento e che si vengano finalmente a scoprire le carte. Motivo per cui in molti si domanderanno: va bene, ma stando così le cose che differenza c'è fra noi e loro? Il piano è che vi sia almeno una certa differenza in termini di voti. Se tutto va come dovrebbe andare, e cioè con il PD al 35% (la gioiosa macchina da guerra), ci scommetto il libretto rosso che anche D'Alema si adeguerà piuttosto in fretta, fatta salva quella punta di gelosia. Visti i tempi proprio non si può vincere facendo opera di moralizzazione e bacchettando quei proletari che desiderano possedere talmente tanti soldi da potersi permettere una Ferrari. Nel frattempo ci si accontenti di un'Alfa 166 del 2007 con 126.000 km, fra l'altro battuta a un prezzo superiore a quello di mercato: comprereste mai un'auto usata da Matteo Renzi? Quel che è sicuro è che è nella furbizia che l'italiano riconosce il genio.
Un'Alfa Romeo 166, del 2007, con poco più di 126mila chilometri - See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Il-governo-vende-la-sua-prima-auto-blu-in-asta-a-gambero-7d3b4c83-1fba-4ca9-9bb4-6372ea5c6260.html#sthash.Va3WsKdu.dpuf
Un'Alfa Romeo 166, del 2007, con poco più di 126mila chilometri - See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Il-governo-vende-la-sua-prima-auto-blu-in-asta-a-gambero-7d3b4c83-1fba-4ca9-9bb4-6372ea5c6260.html#sthash.Va3WsKdu.dpuf

domenica 6 aprile 2014

Sorpresa, anche il signor Manlio ciatava il signor Valdemar:

Come il signor Valdemar, la filosofia «mesmerizzata» tratterrebbe oggi la propria morte irrigidita nell'ultima parola in cui essa la sorprende: mutare il mondo. [...] «Le parole c'è stata storia ma ormai non ce n'è più», con cui secondi i classici la borghesia si metteva al sicuro, conservano così ancora oggi la funzione che già ebbero, se rovesciate però nel loro opposto: c'è stata storia e sempre ce ne sarà. Nel frattempo il cambiamento della società mostra che il mondo non cambia: è questo non cambiamento del mondo nel cambiamento della società che la filosofia, senza eccessiva stupefazione, deve rispecchiare.

Passati più di trent'anni ma sembrano scritte oggi... che la storia sia davvero finita?
Ho voluto omaggiare Manlio Sgalambro comprando La morte del sole. Cacciari ricordava la sua vena leopardiana, quel percepire la scienza moderna come quel sapere che intende salvarci e allo stesso tempo ci condanna al più disperato dei disincanti. Dal risvolto di copertina:

La «prassi» infatti - ora adorata come un tempo l'Uno - non riesce a nascondere la visione che, a poco a poco, la scienza svela: quella dell'universo disincantato come di un immane mostro, acefalo e caotico, avvicinabile soltanto nell'ostile linguaggio dei numeri. Da allora, scrive Sgalambro, il «lutto matematico» avvolge le cose. Così si sviluppa, nella seconda metà dell'Ottocento, l'ossessione della «morte del sole», condannato dalla termodinamica, «spietata erede dei problema della 'salvezza'». La morte termica prende il posto dell'eschaton redentore, il fantasma del sole in agonia si avventa da un futuro cosmico sul secolo della civiltà trionfante e lo paralizza in un tableau vivant della catastrofe.

Direi che si tratta di un passaggio molto utile per comprendere l'inquietudine di noi moderni, più di mille libri di Galimberti. Il rimedio più grande, la scienza che effettivamente può salvarci qui ed ora, ma solo provvisoriamente, che da un lato ci guarisce e si fa interprete dell'ultima incarnazione - la più potente in ordine di tempo - della volontà di potenza, e dall'altro ci costringe ad evocare un senso terribile, ad elaborare continuamente il lutto di un'esistenza irrimediabilmente destinata all'annientamento, eterno, arbitrario e incontrovertibile. 

Dunque la vita dell'uomo (e qui si inseriscono le mie personali lamentazioni), la sua integrità fisica, e cioè la sola possibile, come quella fiammella che miracolosamente rimane accesa, minacciata da tutti i pericoli possibili e dal sinistro sopraggiungere degli eventi, gettata nel mondo, situata arbitrariamente in un punto qualsiasi della storia e della geografia... ce n'è abbastanza per distogliere lo sguardo e pensare ad altro, o a pensare che solo un Dio, in fondo, ci può salvare (e qui ci sarebbe da notare come non sia tanto l'ateismo ad avanzare, che in fondo ognuno può benissimo mettersi a credere nel suo Dio personale qualora ne avesse bisogno, quanto la crisi dell'autorità secolare della Chiesa).

sabato 5 aprile 2014

Senonché, anche la volontà di superare tutte le ideologie si costituisce essa stessa come ideologia. Pare che Jean-François Lyotard fosse rimasto molto deluso dal pensiero marxista e che effettivamente attraversò un periodo di profonda crisi personale che lo portò a partorire quella sua idea di crisi permanente di tutte le ideologie la quale, stando così le cose, assumerebbe i connotati di una vera e propria ideologia del disincanto. Dunque da stato emotivo e da vicenda personale a costruzione meta-sistemica (“meta-” lo aggiungiamo come omaggio) e pubblica narrazione. Sarebbe dunque questo il motivo per cui anche il postmodernismo e il pensiero debole sembrano passare di moda proprio come ogni altra ideologia? Può essere un indizio. D'altra parte il pragmatismo economico e tecnico-scientifico, che dalla morte delle altre ideologie ha tratto sicuro profitto, è oramai la narrazione dominante, a rimarcare il fatto che senza una qualsiasi ideologia pare proprio impossibile vivere. Anche l'ultimo dei Renzi non può che adeguarsi all'idea che è buono e giusto solo ciò che tende ad aumentare l'efficienza, poiché almeno ad una idea occorre far riferimento. Per cui ecco servita questa fase in cui sembra assumere valore il metodo in sé più che i contenuti. Quando poi si verrà ad avvertire anche l'insufficienza della sola efficienza come categoria dello spirito, da un altro incanto passeremo tosto ad un ulteriore disincanto, con conseguente ritorno in auge dell'ideologia più funzionale al momento storico. La penso così.
Dicevo che è una rivolta sessantottina quella di Renzi, fatte le debite proporzioni. Abbasso i professori, la frenesia al potere! Fenomenologia del rullo compressore. Tra forma e sostanza in politica oramai pare non vi sia alcuna differenza, dovrei ripassarmi Aristotele se non fosse che la filosofia è ridotta a un rottame, nemmeno buona per farci qualche soldo dal rigattiere (questo è quello che dicono). Ho un amico che fa scandalo quando sostiene che il sessantotto ha aperto la strada allo yuppismo* degli anni '80, temo che non abbia tutti i torti. Libera di qui, libera di là, togli pure post-modernamente ogni pretesa di inquadramento ideologico, e cioè di allineamento a una "grande narrazione", et voilà, eccoti servita la nuova ideologia del fare per il fare. E in effetti, una volta tolte le idee, non resterebbe nient'altro che il fare senza le idee, un piccolo cabotaggio all'interno di una ancor più piccola narrazione.

venerdì 4 aprile 2014

Perché siamo schiavi del nostro carattere, della nostra storia, delle nostre inclinazioni, chi può chiaramente dirsi libero o completamente autonomo rispetto alle pulsioni che smuovono la coscienza? Non siamo certo noi a deciderle, non siamo noi a suscitarle a comando. Per molto tempo mi sono sentito obbligato a dirmi e a sentirmi libero, ma non erano i miei panni quelli che vestivo. A mia parziale discolpa posso dire che anche Sartre pensava che la libertà non fosse un valore di cui possiamo disporre a piacimento. Forse c'era il timore di smentire tante belle cause liberali e libertarie a cui mi stavo dedicando con così tanta passione, ma ora non ci vedo contraddizione, ero mosso più di quanto stavo smuovendo. Per cui ora mi appare chiaro che tutto ciò che sembra apparentemente il frutto di una propria libera scelta è in realtà semplicemente qualcosa che accade e rivendicarlo come proprio è il più inaudito atto di superbia.

giovedì 3 aprile 2014

Io penso, e già "io penso" è meglio di "io credo", che ogni congiuntura storica che ci appare come immutabile sia in realtà diveniente e che basti pazientare per assistere al cambiamento, quindi attenda chi vuole assistere alla fine di un qualsiasi "-ismo", secondo il proprio gusto e la propria sensibilità. Certo, il tutto è proporzionato alla durata di una vita, per cui i molti che non hanno potuto assistere alla staffetta Renzi-Berlusconi si saranno certamente persi questo gran pezzo di storia patria, ma che ci volete fare, in genere la fine della vita tende a coincidere con la fine della storia (altro che Fukuyama!). Può davvero la volontà dei pochi travolgere la volontà dei molti e diventare dominante? Dipende dalle condizioni. Ma cosa sono le condizioni, appunto, se non quei fattori ai quali siamo subordinati e che di fatto guidano la nostra volontà piuttosto che adeguarvisi? Non voglio fare il professorone, sarei fuori moda, ma penso che questa cosa della "libera volontà" sia un po' la grande consolazione dei contemporanei, la più pia delle illusioni, la più verde fra le foglie di fico, pensarsi liberi di agire è un po' come innamorarsi, da un senso alla vita.

mercoledì 2 aprile 2014

Lavoro molto in questo periodo e sono troppo stanco per mettermi a scrivere anche solo due righe, ma in compenso seguo parecchi dibattiti filosofici via web e mi rendo conto che il leitmotiv è sempre lo stesso, e cioè il bisogno di superare lo status quo, il ristagno nichilista, l'attuale struttura economico-sociale, che la si voglia chiamare "capitalismo" o "dominio della tecnica". Posso capire. Il guaio è che il mio problema è fondamentalmente esistenziale, e cioè dare un senso alla condizione mortale, per cui non riesco comunque ad appassionarmi alle questioni in ballo. Anche l'ipotesi di vivere un giorno in una società più giusta non mi sarebbe di gran consolazione, la felicità del mortale, il quale è felice finché il destino glielo concede, mi appare un po' come la risata isterica del condannato al patibolo o come l'ebbrezza dell'ubriaco, in buona sostanza, ogni possibile felicità mi appare irrimediabilmente avvelenata dal cadavere in potenza.