lunedì 30 settembre 2013

Il problema della misura. Werner Heisenberg dimostrava quasi un secolo fa che appena cerchi di capire dove si trova una particella di materia e la sua quantità di moto il danno è fatto. L'osservatore non è passivo, il suo solo osservare - perché anche il solo osservare comporta emissione di energia - fatalmente ne modifica lo stato, per cui sarà possibile definire solo una delle due grandezze e non entrambe contemporaneamente. Viene meno anche il principio di causalità, il quale afferma che se conosciamo esattamente il presente potremo predire esattamente il futuro. Qui il principio viene meno già a monte, in quanto ci rendiamo conto che ci è stata tolta anche la possibilità di conoscere esattamente il presente. Ma il problema della misura, prima ancora di essere scientifico, è un vero problema filosofico. La particella osservata si comporta più o meno come un noumeno, mentre la particella in sé si comporta più o meno come una cosa in sé. Come nella filosofia kantiana l'osservatore non è passivo, le stesse forme a priori dell'intuizione ci nasconderebbero la realtà. Si tratta di dare un valore ontologico alla particella subatomica e si è deciso di dargliene convenzionalmente uno secondo la celebre "interpretazione di Copenaghen", vale a dire che la particella si trova dove dovrebbe essere solamente nel momento in cui viene misurata (e quindi osservata). Butta male per la res extensa. Naturalmente ci si affretta a ricordare che tali convenzioni non valgono a livello macroscopico: tu, caro mio lettore, dovresti essere abbastanza sicuro di trovarti esattamente lì dove ti trovi anche se non ti osserva nessuno, ma dal mio punto di vista resta comunque il fatto che, per quanto ne so, ti potresti trovare il qualsiasi posto del pianeta e forse anche sulla luna, ed io per principio non avrei nulla da ridire. Ma per quanto ne so potresti anche non esistere. Per quanto ne so potreste anche non esistere. Non è fantastico? La vostra esistenza è un enunciato indecidibile all'interno di questo sistema formale che si chiama vita. 

5 commenti:

  1. Fossimo "determinati", saremmo morti. E si è mai sentito di un morto che legge?
    Poi ci sono quelli che alzano il ditino a dirti:" E' solo colpa tua: devi essere più determinato/a se vuoi riuscire in qualcosa".
    Il che è privo di senso: se fossi determinato/a a raggiungere anche il più micragnoso degli obiettivi, sarei con ciò stesso paralizzato/a. Come potrei mai raggiungere qualcosa se sono impossibilitato/a a muovermi?
    E' solo la mia capacità di svicolare, di darmi regole mobili, il mio surfare l'onda, che mi consente di dirmi viva e, forse, se sarà, di raggiungere ogni tanto un atollo.

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    1. Ogni discorso sull'essere è temporalmente e storicamente situato

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  2. Heisenberg non conosceva la dialettica materialistica (anche se diceva di essere un dialettico), perciò considerava LA particella che si comporta secondo CASUALITA', mentre LE particelle si comportano secondo necessità (che non centra nulla con la CUSALITA').
    il grande fraintendimento della fisica è proprio in ciò, che crede di poter fare a meno della filosofia matematizzando senza avere le basi per capire. anche le osservazioni che fai tu in seguito sono altrimenti chiare applicando la dialettica materialistica.

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    1. Ma la materia è materiale o è percezione di qualcosa che chiamiamo "materia"? Io per stare sul sicuro propenderei per la seconda ipotesi

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    2. rileggendo vedo che ho scritto cusalità. 7+

      sì, H. diceva questa cosa considerando le "distanze" tra nucleo ed elettrone, davvero enormi. poi la cosa, fraintesa, è stata ripresa dai teologi in televisione

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