Scriveva l'acuto osservatore dell'umanità che da quando non crediamo più nella città celeste siamo costretti ad inseguire la felicità qui sulla terra e proprio perché costretta entro i limiti della materia questa felicità ci si presenta come deperibile e quindi già contenente il germe dell'infelicità. Causa il ricorrente riaffiorare di un certo malessere connaturato allo spirito posso dire che sì, non posso che trovarmi d'accordo, che così come la fede nella felicità ultraterrena aveva prodotto nel mondo le sue belle distorsioni, così la raison illuminista ci ha ridotti a quel nulla che siamo o che crediamo di essere e che ci avvelena l'esistenza, nell'ansia di dover per forza giocarci tutto nell'unica occasione che ci è concessa. Si vive nel panico, altro che nella felicità affrancata dalla ragione, e questo panico, interiorizzato perché non sia d'impiccio nello svolgimento delle attività quotidiane, scava sottotraccia e riemerge nei mille rivoli delle ossessioni e delle nevrosi che affliggono i contemporanei. Morale della favola: l'uomo è un problema irrisolto (e al momento privo di soluzione).
Non diventarmi post-umanista, però
RispondiEliminaBoh, non sono umanista
Elimina