Come si sforzano, gli americani, di fare gli antirazzisti, si vede che non gli viene naturale, ma si può ben dirlo anche delle nostre istituzioni democratiche, le quali si muovono sempre sul piano dell'esempio edificante: il campione sportivo, l'uomo di scienza, il musicista, l'immigrato che salva la vecchietta, una famiglia di bianchi rimasti a piedi con la macchina, come a dire: anche loro sono brave persone! E poi il mito dell'integrazione, che già di per sé è razzista, come se per elevarsi di valore, il minus habens privo di eguali diritti, dovesse incorporarsi come riconosciuta entità etnica in una società ulteriore, che la protegge, sì, ma che in cambio la segnala, la sottolinea. Le contraddizioni, per tanto che ci si impegna, non si risolvono, l'antirazzismo di maniera, quello delle grandi campagne di persuasione, contiene già in sé i germi della malattia che vorrebbe debellare. Per essere davvero antirazzista uno dovrebbe davvero vivere tra gli uomini, con le persone, e invece l'antirazzismo che si fa nelle nostre cosiddette società civilizzate diventa un cliché che ci regala la comodità di lavarci la coscienza ma che alla fine lascia le cose come stanno.
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