sabato 4 marzo 2017

La scuola di liscio

Mio nonno mi iscrisse ai corsi di liscio perché quella era la sua idea di educazione sentimentale, "chi bala bén fa la morosa". Io all'epoca ascoltavo gli A-ha e mi pettinavo come George Michael, fui catapultato d'emblée nel rutilante mondo di Castellina-Pasi ("Spaccafisa", "Tuttopepe"). La scuola di ballo era lontana, ricordo i tragitti all'andata con la morte nel cuore, una condanna, anche per la mania di mio nonno di sorpassare i camion col coltello fra i denti. Traversavamo il Po all'altezza di Castelnovo Bariano, paesaggio bidimensionale, tutto fossi, pioppeti e distributori GPL. Nemmeno l'idea di ritrovarmi per le mani una ballerina mi consolava, anzi, mi imbarazzava terribilmente, così, di imbarazzo in imbarazzo, imparai la mazurka aperta, cioè quella con le figure (il loop, il flip, il doppio axel), più il valzer, il bolero e il tango, con l'hesitation. All'inizio le figure proprio non mi volevano entrare in testa, furono due lezioni da incubo, con la ballerina che mi perculava e mio nonno assai avvilito, per conto mio sudavo freddo. Ma non c'era solo il liscio, c'era anche il programma "moderno", vale a dire la rumba, il twist e il cha cha cha, il tutto in vista delle esibizioni in piazza. A pensarci adesso mi pare tutto un po' irreale, come fosse accaduto ad un altro. Ricordo una sera in cui non avevano sparso abbastanza talco sulla pista e ci piantavamo come biciclette nella sabbia (il liscio necessita appunto di superfici lisce, possibilmente scorrevoli), ricordo le mie due ballerine, con le quali mi scuso idealmente per il mutismo, dovuto essenzialmente alla mia timidezza patologica. Erano belle ragazze e pure io ero un bel tipo, solo era la testa che non funzionava, allora come oggi, che ancora si stupiscono quando dico che per me ballare era una tortura. Era mia nonna a cucirmi i vestiti per le esibizioni, una salopette attillata di maglina elastica, con la riga rossa sui pantaloni che parevo un carabiniere, le camicie invece di chiffon rosso e verde mela, e le scarpe di copale (come nella nota canzone di Guccini). Assomigliavo ai Cugini di Campagna, solo senza le zeppe. La parata di apertura la facevamo sulle note di "Sì, la vita è tutto un quiz", quella di chiusura su "Cacao Meravigliao", la parte migliore era quando era tutto finito. Le volte che ho sbagliato i passi... c'era la serata che li imbroccavo tutti e c'era quella che sbagliavo il primo e via tutti gli altri (alla mia seconda partner non stavo molto simpatico per questo), tanto cambiava poco, a fine serata ci regalavano una coppa di consolazione, base in marmo e struttura in plastica dorata (variazioni liberty su tema coppa Rimet). Mi scuserete ma avevo bisogno di sfogarmi, sto facendo un po' di ordine, come di chi si appresta a buttarsi di sotto ma prima piega bene le camicie perché di lui si conservi un buon ricordo, non fate troppi pettegolezzi.

5 commenti:

  1. Figuriamoci, nessun "pettegolezzo". E' così piacevole leggerti quando "pieghi bene le camicie" che una finisce per augurarsi che le camicie non ti finiscano mai...

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  2. Oh poveretto,chissà che sofferenza.

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  3. Per favore, vai avanti con questi acquerelli. Meritano!

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    1. In effetti per me scrivere è un pò come dipingere, ci vedo delle affinità.

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