Ci sono luoghi in cui la pericolosità del contagio è determinata da giudizi di carattere etico-morale prima ancora che sanitario. Per esempio a scuola non ci si contagia perché la scuola è il futuro dei nostri figli, la scuola è impegno e sacrificio, in una ventina ammucchiati dentro una classe coi famosi banchi a rotelle oppure distanziati di un metro e mezzo misurato col metro centimetro, basta cambiare l'aria. Guai a chiamarlo assembramento, è "scuola in presenza". Diversamente è assembramento se si consuma all'aperto un caffè da asporto, magari nelle immediate vicinanze di un esercizio pubblico che in passato ha fornito servizio di apericena con l'aggravante dell'atteggiamento narcisista. La gente muore, non è il momento di mangiare patatine. E il paese ha trovato il più degno interprete di questo umore in Mario Draghi, che biasima secondo categorie assolutamente conformi al sentimento comune. Un secolo fa lo si sarebbe chiamato "benpensante", "perbenista", oggi perlopiù lo si chiama Professore perché incarna il mito dell'autorevolezza e della competenza. Lui stesso indossa la mascherina, al chiuso, se non parla, ed è solo quando si accinge a sparpagliare le sue goccioline di fronte al microfono che se la toglie, tanto poi passano le maestranze a sanificare. Però all'aperto tutti mascherati, compresi gli inviati, soli nelle piazze deserte col vento in faccia a due metri di distanza dal primo tecnico del suono, e magari la sirena di un'ambulanza in lontananza per drammatizzare. In studio sempre impeccabili senza mascherina, freschi di barbiere ed estetista, con l'abito buono e la pochette nel taschino, perché lo studio è come il salotto di casa, è sulle piazze che si fa il reportage di guerra. Insomma, è tutta una fola, il virus si regola poi per conto suo.