Cronaca della peste del 1348 in Firenze tratta in forma di sunto dal Boccaccio Giovanni, Decameron:
Non vale alcun senno o umano provvedimento per fermare la peste in Firenze: purgata dalle immondizie, fatto divieto ufficiale di entrare ed uscire dalla città, dati molti consigli sulla conservazione della sanità e condotte innumerevoli processioni, la peste dilaga senza ritegno. Non come in oriente, dove alla gente sanguinava il naso, ma nella forma di enfiature all'inguine e sotto le ditella, in apparenza di mela od uovo, che alcuni chiamavano gavòccioli (bubboni), che si trasformavano poi in macchie nere e livide sintomo di morte imminente entro il terzo giorno. Alla cura di queste infermità non valeva né virtù di medico né consiglio o medicina, a guisa che i medici erano fioriti in gran quantità anche fra le persone che mai avevano studiato medicina, e col tempo non solo il contagio si trasmetteva con la sola vicinanza ai malati, ma pure toccando i loro indumenti e la malattia passava dagli uomini agli animali, e viceversa. Si cominciò a schifare e fuggire gli infermi, fratelli abbandonavano i loro fratelli e così le madri i figli, alcuni sani si rinchiudevano in casa, altri si davano senza ritegno al bere senza sperar nel domani, godendo il più possibile in opinione contraria alle raccomandazioni e beffandosi dei medici e della medicina, lasciando per giunta le loro case incustodite che venivano da altri occupate, altri ancora girando per strada con certe spezie nel naso a mo' di remedio, o per non sentire il puzzo dei morti. Non mancarono poi quelli che fuggirono dalle città ritornando dai parenti in campagna, così portando il morbo e distribuendolo anche fuori le mura...
Già Boccaccio lamentava la fioritura improvvisa in tempi di peste dei
medicanti (de' quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d'uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo)
Il pattern è identico perché identico è l'uomo e la paura di crepare.