domenica 3 maggio 2015

Al di là del principio di piacere

Mi è capitato sottomano un bell'articolo del buon Sossio Giametta (storico traduttore dei tedeschi, di Nietzsche e di Schopenhauer, ma anche di Freud) pubblicato su Sette. Qui scrive di Spinoza e capita giusto a fagiolo.

Spinoza, scrive Giametta, «aveva visto ciò che per molti secoli nessuno ha visto e che ancora oggi pochissimi vedono (la necessità al posto della libertà). Ma anche proclamato l'eccellenza del vivere secondo la necessità interiore invece che secondo quella esterna». Perché dunque Spinoza non ha risolto una volta per tutte il problema del libero arbitrio? Perché «si rifaceva alla configurazione vigente del libero arbitrio come arbitrio assoluto, come libero arbitrio dell'indifferenza, cioè a una teoria per principio sbagliata. Un arbitrio assoluto è inconcepibile, come una realtà ab-soluta, slegata dalla sola che conosciamo». L'uomo «è parte della natura e quindi della potenza della natura, dove potenza è sinonimo di libertà».

Io sarei ancora più drastico e toglierei proprio la libertà come possibilità effettiva. Certo noi contemporanei abbiamo tutto il nostro portato culturale per cui non possiamo non pensarci liberi, ma appunto tendiamo a pensarci liberi in senso assoluto, e cioè ab-soluto, sciolto da ogni legame, che appunto è inconcepibile. E' già stato scritto che costituisce grande consolazione per l'uomo l'illudersi di vivere potendo porsi alla guida del proprio destino, quasi ad esorcizzare l'impedimento ultimo e definitivo, in un certo senso siamo come destinati a pensarci liberi proprio in ragione dell'impossibilità di esserlo. E' questo il senso giudaico-cristiano della libertà, sforzo della volontà capace di guidare l'azione degli uomini e condurli alla salvezza (e qualcuno fa poi notare come questa convinzione sia comune alla scienza come alla fede, si tratta solamente di comprendere che la scienza ha sottratto le prerogative essenziali alla fede in Dio promettendo la salvezza entro i confini di questo mondo, e da qui la sua grande forza).

Bene, con Spinoza, è noto, la questione viene ribaltata, la libertà è pensabile solo come coscienza della necessità. E quando Giametta scrive che l'uomo «è parte della natura e quindi della potenza della natura, dove potenza è sinonimo di libertà», è come se ci dicesse che tutta la libertà di cui disponiamo è depositata presso questa potenza, che tutt'al più ci permette di assecondarla nell'illusione di vivere nel modo più naturale possibile, liberandoci dai falsi idoli e dalle false morali. Qui riecheggiano le letture nietzschiane di Giametta e di nuovo si comprende bene perché il Nietzsche originale, non quello pasticciato dai postmoderni, fosse un negatore del libero arbitrio e un entusiasta ammiratore di Spinoza.

Eppure di nuovo tutti sentiamo il bisogno di riconoscere la libertà come assoluta e di respingere la necessità, perché essere in balia del mondo non è esattamente quello che ci indica la sfera emotiva. Ma per l'appunto, è proprio questa sfera emotiva a legarci a questo particolare senso delle cose e noi pensiamo di fare cosa buona e giusta assecondarla nella speranza che ce lo possa confermare di continuo e per via diretta in una sorta di coazione a ripetere. Senonché la contraddizione esplode, nel senso che questa libertà assoluta prima o poi si trova a fare i conti con il principio di realtà, ed è da questa continua tensione tra il volere e il non potere che scaturisce infine l'ampio spettro delle tragicomiche vicende dell'umanità (Schopenhauer → Freud).

2 commenti:

  1. A questo punto si arriva direttamente a Houellebecq. Siamo (come) particelle elementari, né libere, né necessarie. Chi glielo dice a Renzi?

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    1. Se per necessarie intendi utili, allora necessariamente non lo siamo. Se intendi ontologicamente necessarie, allora lo siamo necessariamente (nel senso che non potevamo non essere).

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