Penso che ci siamo formati una nozione di democrazia molto ideale e questo è chiaro un po' a tutti. Intimamente pensiamo che la condizione ideale della democrazia sia quella in cui l'elettore sceglie razionalmente fra l'alternativa migliore, è una nozione che del resto è chiusa nel concetto stesso del termine, ovvero democrazia come esercizio della volontà informata del popolo. Cosicché la democrazia si viene a configurare come quella pratica asintotica che sempre aspira a raggiungere e mai raggiunge, che sempre tenta di restare all'altezza del suo ideale - ideale platonico par excellence, come avrebbe fatto notare quel matto di Nietzsche - ma mai ci riesce. Anzi, si dice che sia proprio in questo infinito aspirare alla perfezione del concetto, che mai riposa e sempre aspira, che sia racchiuso il senso del progredire storico, il senso stesso del progresso. Può anche essere, ma io vedo che, lungi dall'essere esercizio di una attività ragionante, la democrazia è pratica di attività desiderante (o magari la ragione stessa è un forma del desiderio). C'è questa volontà precostituita nell'elettore di andare a scegliersi il romanzo che più viene incontro alla suo gusto personale, quello in cui più volentieri indugia come perso in un sogno, si vota come si sceglie l'ultimo giallo in libreria sapendo di voler leggere un giallo. I candidati questa cosa l'hanno capita bene per cui da sempre fanno leva sulla mozione degli affetti, si tratterebbe quindi del progresso emotivo dello Spirito del mondo, la storia vera e propria di tutte le sue incarnazioni. La verità starebbe racchiusa proprio in questo mostrarsi del romanzo, non tanto in chi si avvicina di più al boccino. Quindi la questione cruciale sarebbe: sarà mai possibile in qualche modo uscire dal romanzo? No. (a questo punto penso sia superfluo sottolineare la perfetta assonanza fra i termini "elettore" e "lettore", da lettore del romanzo a elettore nel romanzo).
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