La ragione entro i limiti della semplice opinione. Si sa che il problema della morale in Kant è tutto racchiuso nel
nobile tentativo di riedificare l'edificio morale privandosi
dell'ingrediente principale e cioè di quella solida malta fornitagli
per secoli dalla metafisica cristiana. Sembrerebbe impresa titanica,
come impastare una torta senza fecola o farina. In sostanza, tolta la
pretesa di ancorare le leggi morali all'arbitraria volontà di un dio
e di una religione che intende farsene interprete, tolto il vecchio
fondamento, per cui Kant, che era uomo di abitudini regolari persino
nell'accingersi a fare una rivoluzione, si dedicò all'impresa di
rifondare la morale pretendendo questa volta di ancorarla al criterio
più oggettivo della ragione naturale.
«La religione in cui io devo, prima, sapere che qualche cosa è
un comando divino, per riconoscerla poi come mio dovere, è la
religione rivelata (o che esige una rivelazione): quella, invece, in
cui io devo sapere che qualche cosa è un dovere prima che la possa
riconoscere come un comando divino, è la religione naturale»
(La religione entro i limiti della semplice ragione)
(La religione entro i limiti della semplice ragione)
Qui è chiaro l'intento, per cui risulta chiarissimo anche il celebre
motto «il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me», reso
col tempo obsoleto dall'altrettanto celebre «non esistono fatti,
solo interpretazioni». Dice Kant: se non possiamo più accettare
l'idea di una morale rivelata, cioè che comporta un'assunzione di
fede, dobbiamo allora adeguarci più ragionevolmente a una morale
«naturale», che è poi la morale della «semplice ragione». La
ragione parla all'uomo con il suo imperativo, il quale risulta più
naturale della stessa volontà rivelata, cosicché il cristianesimo
finisce per divenire in prospettiva la vera religione naturale, i cui
dogmi sono lo specchio delle verità morali secondo ragione.
Perché non possiamo più adeguarci a una tal soluzione? Perché in
qualità di contemporanei abbiamo scoperto che il concetto di
“naturale” può nascondere le stesse insidie insite nel concetto
di “divino”, e cioè la possibilità che dietro ad esso si
nasconda in realtà un fantasma, il fantasma del bisogno di
stabilità, una pulsione fisiologica ancor prima che psichica
(Nietzsche docet). Ecco per cui si diffonde quell'atteggiamento
morale tipico della modernità in cui gli atti si giustificano in sé
in ragione di un criterio positivo e non secondo un criterio
naturale. La categoria del naturale si estingue quasi fosse l'eco di
un vecchio trombone inservibile, l'ultimo dei giapponesi che combatte
una guerra che non sa ancora di avere perso. Nemmeno più si è
portati a pensare che la ragione abbia una qualche connessione con
l'empireo o con Dio, il segno di una sua elezione nei nostri
confronti, il segno della Sua intima presenza o della nostra sostanziale differenza rispetto al genere animale (l'uomo animale razionale, ecc.), ma che sia invece una
funzione da tenere ben allenata se si vuole praticarla per il meglio,
come la memoria o come il muscolo del centometrista o del maratoneta,
modellato sulle necessità contingenti della disciplina che si vuole praticare. Senonché, liberata dal peso del vincolo naturale, la ragione ritorna ad essere "circostanziale", cioè vera solo date certe premesse o comunque strumento di questo o quell'argomento contingente, riviviamo in un'epoca di scetticismo, in una riedizione del sofismo come pratica utilitaristica della ragione, niente di nuovo o che non sia già stato precorso dagli antichi, ed è bene tenerlo a mente se si crede di avere raggiunto il culmine di un certo percorso di civiltà.
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