Era venuto Husserl a dirci che occorreva ritornare al fenomeno, che troppo avevamo congetturato sopra enti metafisici col rischio di parlare del nulla. Poi venne l'allievo a tentare di fare dell'ontologia senza metafisica, di cercare l'essere entro i limiti di ciò che si mostra. Ma ecco che per salvaguardare l'evidente fragilità dell'ente e posto che l'essere è tale, così dicono, solo se immutabile e incorruttibile, di nuovo ricade nel vizio della metafisica e fa dell'essere "ciò che permette agli enti di mostrarsi e di illuminarsi", torcia elettrica che mai si consuma, convitato di pietra, entità incombente che mai si mostra. Sto parlando di Heidegger. Che a un certo punto si rese pure conto che si stava incaponendo in un disperato tentativo di afferrare l'aria, ma che per non farci brutta figura decise di scaricare tutta la responsabilità sul linguaggio, a suo avviso insufficiente a descrivere quel che aveva in mente. Il ventesimo secolo ci andò a nozze, che "l'essere si nasconde nel non detto del testo, ovvero nei vuoti tra le righe" (Derrida). Voi dunque pensavate di stare leggendo una cosa un po' astrusa ma tutto sommato innocua, e invece no, occhio che l'essere, il santo Graal, potrebbe incombere anche fra gli spazi vuoti di queste poche righe, non lo vedete? Aguzzate la vista (voleva più o meno dire che l'essere non è un'entità a sé ma è la struttura stessa degli enti, la loro grammatica. Elegante, tuttavia non ne farei una questione estetica).
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