mercoledì 11 gennaio 2017

A me stesso

Mi sento morto da quando ho l'età della ragione, una volta compreso il senso della parola "mortale" e non avendo mai avuto una gran fede in Dio, praticamente i giochi erano fatti ("Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei"). Da quella depressione della durata di due o tre anni che occupa più o meno la prima parte degli anni novanta. Da lì non mi sono più ripreso, sono ancora convalescente. Mi sorprende che ci sia in giro un qualche ateo che è ugualmente contento di vivere, un bell'enigma. Sarà che me la prendo troppo, sarà che alla morte non ci si pensa finché non te la stampano nero su bianco su un referto istologico. Stavolta è andata bene, pallottola schivata, ma "sono possibili recidive". Alla muta legge della natura non gliene cale punto, a lei basta che le tornino i conti, tutto è razionale, dai fiorellin di campo alla peste bubbonica, unica direzione: la rovina ("Al gener nostro il fato non donò che il morire"). (io e il Giacomo ce la intendiamo alla perfezione).

4 commenti:

  1. Eccomi, ateo e contento. E mi secca anche un po' dover morire.

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  2. beh, è normale, se uno pensa di essere nato (cioè di rappresentare una novità o un unicum ontologico) è impossibile accettare la morte. Io, per dire, non mi sento niente di speciale e quindi chi se frega...

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  3. Un buon metodo è quello di affezionarsi in modo insano a qualcosa o qualcuno che, ragionevolmente, ci sopravviverà e consolarsi con l'idea che non lo/la si perderà.
    Una quercia, una tartaruga, non la propria vita.

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