A Moglia di Sermide, fissata all'altezza dei piedi nel muro vicino all'entrata, c'era una staffa di ferro che serviva a grattare le suole degli stivali, ricordo dei tempi in cui le strade non erano asfaltate e tornando dai campi si portava in casa la terra grassa e motosa, oppure tornando da una battuta di caccia al fagiano (o alla lepre). Questo prima che la casa fosse ristrutturata secondo i canoni della modernità e il portone di legno fosse sostituito da un più razionale serramento in alluminio. La terra dei campi, dalle nostre parti, aveva consistenza d'argilla, cedeva sotto le suole come sabbia mobile, e non si poteva sostare troppo a lungo in un punto senza sprofondare fino alle caviglie. Seccata, cambiava colore dal nero al grigio, brizzolava, e penetrava nei solchi delle suole indurendo come cemento, sgretolandosi poi a poco a poco e rilasciando a tradimento una specie di farina sulle mattonelle scure, da farci impazzire le donne che dovevano prendere la scopa. Una soluzione sarebbe stata di togliersi gli stivali prima di entrare in casa, ma certe cose l'uomo di quei tempi ancora non le concepiva, sarebbe stato un gesto poco virile (un uomo, che si toglie le scarpe, e magari si mette anche le pattine...). L'arrivo della modernità decretò la fine di questo uso campagnolo e al posto della staffa il geometra vide bene di far correre lungo tutto il perimetro della casa uno zoccolo di marmo screziato, lontano parente del bugnato di palazzo Medici, Firenze, a solo scopo decorativo. Lungo la casa correva anche un marciapiede, cemento finissimo su cui lasciai a più riprese larghe porzioni di ginocchia che si sgrattavano per il lungo come tocchi di parmigiano, facendo fiorire sulle rotule dei grandi ovali rossi sui quali nonna agiva prontamente con l'alcool denaturato. Da bambino inciampavo spesso e volentieri, senza motivo, come se uno spiritello fosse sempre lì a farmi lo sgambetto, e così col tempo imparai ad andare al trotto come un lipizzano, moderando l'entusiasmo della corsa a briglia sciolta. La cementificazione era ritenuta un segno del progresso, se non altro teneva pulito, sporcava piuttosto la terra e tutte le cose che ci crescevano dentro; quando pioveva, poi, era un disastro, e dalla terra riemergeva l'antica vocazione di palude (Moglia di Sermide, la "Moia", cioè bagnata). Calavano certe fumane, certi nebbioni, da non vederci le punte dei nasi, ricordo una notte rischiarata da un lampione che diffondeva la sua luce lattiginosa da qualche punto ipotetico nello spazio, tutt'attorno un indistinto chiarore, come una vista appannata, tentando di localizzare il nonno a voce, come i pipistrelli nella notte. Nonno aveva montato degli speciali fendinebbia sull'Alfasud, poi passati all'Alfa 33 (quadrifoglio oro, molto elegante), dei fendinebbia gialli che se non altro illuminavano la nebbia di un colore diverso, più allegro. L'umidità era un gran problema, saliva su per i muri, si insinuava in camera da letto dove i preti riscaldavano le lenzuola (il prete inteso come scaldino elettrico, anticamente a brace), altrimenti sempre fredde e umidicce. E gli orinali messi sotto ai letti per la notte e un film di Jerry Lewis alla televisione.
bello.
RispondiEliminagià leggendo mi è venuta una cervicalgia
Grazie, ma se ti è venuta la cervicalgia allora ti ha fatto male... è per via dell'umidità?
EliminaComunque mi incoraggiano a scriverne ancora e io come sempre mi tiro indietro, adesso prendo coraggio.
certo, tutta quella nebbia ...
Eliminascrivere per se stessi, poi ...