I nebbioni che c’erano a Moglia erano iperuranici, i nebbioni in concetto, sub specie aeternitatis, i nebbioni in sé, un occhio ceruleo che annullava la molteplicità del mondo. Ti assalivano appena usciti dalla porta, un passo ed eri già avvolto dal nulla, l’indistinto e lattiginoso nulla, che per accertare l’esistenza della casa alle tue spalle dovevi allungare la mano e appurarla sulla fiducia. Dovessi figurarmi il concetto di ápeiron sarebbe la nebbia di Moglia (ἄπειρον, ápeiron, composto da ἀ-, a-, «non», e πεῖραρ, peirar, «limite», l’illimitato, nel senso che non se ne intravede il limite, per cui l’indefinito). Se non fosse stato per i suoni che testimoniavano l’esistenza del mondo ci sarebbe stato da impazzire, catapultati in una dimensione ultraterrena, in una quarta dimensione. Guidare sulle strade incrociando i fendinebbia dei tir che ti sfioravano sbucando dal nulla a qualche metro dal proprio cofano già parzialmente sparito dalla vista, esperienze che ti formano.
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