Specialmente verso i primi di febbraio, in Italia, a noi uomini di ingegno viene richiesta come a tutti la partecipazione al rito collettivo del Festival di Sanremo, soprattutto se ci troviamo calati in un contesto familiare e non invece ritirati nella quiete del nostro eremo celeste a leggere Arturo Schopenhauer. Bisogna solo accettare di indossare una maschera, fare come i giapponesi, che in pubblico offrono una facciata socialmente rispettabile (tatemae), e dentro tengono nascosti i loro veri sentimenti (hon'ne). Io credo che molti dei problemi di socializzazione di noi timidi introversi nascano dal non accettare di indossare questa maschera in pubblico, vuoi per dignità, vuoi per manifesta incapacità di recitazione, vuoi perché vorremmo che in noi l'individuo sociale coincidesse quanto più possibile con quello interiore: non è possibile. Al festival di Sanremo, qui da noi, non ci si può sottrarre, forse abitando all'estero, ma all'estero-estero, che non vale essere di San Marino o Città del Vaticano, siamo tutti coscritti noi residenti dello italico stivale, e chi non partecipa è un disertore, un ladro o una spia, russa, ovviamente. Detto questo, quest'anno proprio non ce la faccio a fare l'italiano, a pipparmi ancora Benigni, gli applausi a Mattarella e tutta l'autocelebrazione farlocca e vanagloriosa della patria (ma quale patria? disse raccogliendo a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenando quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli), la maschera mi scende, nemmeno a tenerla su con gli elastici dietro alla nuca, quelli che non tirano le orecchie, non ce la faccio, per quest'anno mi chiamo fuori, sono out.
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