Aspettarsi una vittoria in una partita di calcio innesca tutta una serie di fallacie psicologiche, prima fra tutte la vaga speranza che esista da qualche parte, oltre il piano sensibile, un destino riparatore di tutti i soprusi e di tutte le ingiustizie commesse ai danni di un gruppo sociale o di un'entità nazionale, e anche volendola riportare sul piano empirico la credenza che basti una partita di pallone o un incontro di boxe o partita a carte a riparare un torto o a certificare la superiorità di una idea o di un certo clan su quello dell'avversario, una questione che viene da lontano, dalle Olimpiadi greche e dalle gare di carri degli egizi e dei babilonesi, insomma la riproposizione della guerra con altri mezzi, che se è stupida la guerra lo sarà in sé anche la sua trasfigurazione, e che se la mettiamo su questo piano basterebbe anche solo far presente agli inglesi ai francesi agli spagnoli agli americani che noi abbiamo avuto l'impero romano e solo questo basterebbe a sancire per sempre la nostra vittoria a tavolino.
tra le attività umane, il calcio è quella con il minor rapporto (impatto effettivo nella realtà)/(impatto percepito sulla realtà). Nel calcio si proiettano speranze, frustrazioni, paure, e chissà che altro, immaginando che una vittoria possa "fare la Storia", riscattare l'orgoglio ferito dei popoli, essere di ispirazione per chissà quali imprese. Poi però quando lo spettacolo si spegne, cosa rimane? Emozioni oniriche, residui onanistici. La realtà, finita la sbornia, rimane lì, fatta di paesi più o meno disperati, con problemi immani da risolvere, che hanno proprio bisogno del calcio per evitare di pensarci. Ecco, non pensiamo alle nostre mille vulnerabilità, che ci farebbero perdere il sonno, distraiamoci con il calcio e la figa.
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