Mi è tornato in mente stamattina come un incubo proveniente dal passato la dolorosa vicenda del corso di nuoto che mi fecero fare da bambino. Ricordo che ci riunivano tutti sull’autobus il pomeriggio sul tardi e io mi mettevo di malumore fin dalla mattina, facevamo i chilometri per raggiungere la piscina, ricordo il senso di umiliazione di trovarmi lì in mezzo agli altri con il mio costumino striminzito e le mie gambette pallide. Disonore, vergogna, degradazione. E poi la tortura dell’acqua. Ci costringevano a tuffarci dal trampolino per prendere dimestichezza con l’elemento e io vivevo quei tuffi come piccoli suicidi, prove anticipate della morte. Gli altri si divertivano. Coglioni. Io nel frattempo proprio non imparavo a nuotare, sicché mi misero nel gruppo di quelli che provavano a stare a galla. Ci diedero una specie di galleggiante di polistirolo e così ci esercitavamo in disparte a non colare a picco. Con scarsi risultati. Quando finiva era un gran sollievo, ricordo il freddo mortale quando uscivo dall’acqua, ma c’era da fare ancora la doccia, proprio lì, in mezzo agli altri. Io mi nascondevo dietro alla nonna che mi assisteva in tutto quel trambusto porgendomi l’asciugamano. “Nonna, quando torniamo a casa!”, non ce la facevo più. Siano stramaledetti i corsi di nuoto e gli assembramenti coatti a scopo di socializzazione. “Proprio non vuole stare in mezzo altri!”, mi dicevano. E ti credo, ci avevo la mia dignità, io!
(la dignità ferita dall'umanità fessa e cretina era un dogma che mi era stato instillato nell'animo fin da piccino, quando parti così è chiaro che il cammino risulterà accidentato)
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