Capitolo VI del Trattato teologico-politico, quello dedicato ai miracoli. Il volgo, dice
Spinoza, chiama miracoli e opere di Dio gli eventi straordinari della
natura, e per zelo o «per smania di osteggiare coloro che coltivano
la scienza della natura, desidera di ignorare le cause naturali delle
cose e si mostra voglioso di ascoltare soltanto ciò che gli è del
tutto oscuro e che di conseguenza suscita la sua massima
ammirazione». Viene a crearsi dunque un contrasto fra le leggi della
natura, colpevoli di ogni sciagura materiale, e la potenza infinita
di Dio che agendo da monarca assoluto interrompe l’ordine naturale
delle cose contrastandone l’iniquità e ristabilendo la giustizia.
Ma da dove proviene questo modo di
pensare? Spinoza non ha dubbi: «siffatta credenza ha avuto origine
dagli antichi Ebrei». Essi, allo scopo di persuadere i Gentili delle
loro epoche che credevano nelle divinità naturali quali il Sole, la
Luna, la Terra e il Cielo, vollero dimostrare loro che quegli dèi
erano impotenti rispetto alla potenza del loro Dio invisibile che era
in grado di soggiogarli, e che i miracoli di cui era capace erano il
segno evidente della predilezione che Dio nutriva nei loro confronti:
il mio Dio è più potente del tuo.
Riecheggia qui la critica
nietzschiana al pensiero giudaico-cristiano, colpevole di astio e
gelosa malevolenza nei confronti della sana e robusta costituzione
degli antichi greci e romani, ed è forse per questo che Nietzsche si
stupì di aver trovato in Spinoza un precursore che gli avrebbe
tenuto compagnia tra quelle alte vette del pensiero in cui si era
cacciato disgustato dalla pochezza dei suoi simili. Il mangiapreti e il mangiarabbini, Nietzsche e
Spinoza compari in arguzie nello smascheramento degli altarini della
fede.
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