[i racconti della Bassa]
La leggenda di Rocco Siffredi si era diffusa fra noi della terza analisti contabili come un’epidemia di gonorrea, si narrava di quest’uomo che ce l’aveva grosso come un cavallo, orgoglio patrio più del Foscolo e dell’Alfieri, eccellenza italiana. Ci domandavamo: come faceva ad entrarci? Le donne fra le gambe dovevano avere tipo una spugnetta per i piatti. Forti di questo prototipo di stallone noi in fondo si sperava che un poco di virilità ci venisse riconosciuta per proprietà transitiva, come un’aura infusa dal suo carisma, ma in realtà le femmine della nostra classe guardavano quelli più grandi, amatori ferini con giubbotti di pelle e motorini di grossa cilindrata abitanti il mondo di fuori. In particolare c’era una bella ragazzona nell’altra sezione che si presentava sempre con la gonna al ginocchio e le calze bianche da educanda, aveva due labbra che parlavano la lingua dell’amore, e le scarpine scollate, era fatta della stessa sostanza del burro. Io mi ero immaginato non so che cosa, che fosse la donna che faceva al caso mio, grande fu la sorpresa quando l’anno successivo me la ritrovai incinta. Non si poteva proprio evitare di considerare quelle gambotte accavallate, qualcun altro però era stato più lesto di tutti, un meccanico privo di titolo di studio. Perché alle donne piacciano proprio i mentecatti non si capisce, e perché non scelgano invece chi le può ubriacare di letteratura, non sono poi così sicuro che ne capiscano dell’amore. Fatto sta che alla fine sgravò giusto in tempo per fare l’esame di maturità, lei con le sue calze bianche e la sua carne di burro, che quando la baciammo lasciando la camera d’ospedale in cui ci eravamo recati per farle visita mi sembrò più soffice di un memory foam. E intanto Siffredi non sbagliava un film.